A cosa serve la psicoeducazione quando sei ADHD
A sopravvivere, mi verrebbe da dire.
Prima della mia diagnosi, non avevo mai sentito parlare di psicoeducazione. Conoscevo la psicoterapia e mi hanno sempre affascinato i differenti orientamenti: cognitivo-comportamentale, psicodinamico, sistemico-relazionale e tutti gli altri di cui non ricordo il nome. Eppure non ho mai saputo su quale approccio si basasse il lavoro delle mie precedenti psicologhe, ad eccezione dell’ultima, con cui ho provato l’EMDR: una pratica che lavora sui traumi tramite un movimento veloce degli occhi. Una sorta di ipnosi vigile e controllata.
In quel caso ero ben cosciente del metodo, visto che fissavo per minuti interi il movimento della mano della mia terapista snocciolando uno alla volta tutti i traumi della mia vita. Lei chiamava “target” e ogni volta che ne superavo uno mi sembrava di sbloccare un livello di Super Mario, l’unico videogame a cui abbia mai giocato da bambina. Dopo due anni i target erano finiti, ma della principessa neanche l’ombra. C’ero solo io, che assomigliavo più a una naufraga che alla figlia prediletta del re.
L’EMDR è un approccio utile per chi soffre di stress post-traumatico o per chi è una sopravvissuta senza saperlo, come nel mio caso. Non lo consiglierei a tuttə. In particolare, non lo consiglierei a chi è ADHD, perché è ad alto rischio distraibilità: nei secondi infiniti in cui devi fissare il movimento della mano della terapeuta in assoluto silenzio, i pensieri intrusivi si affastellano come le auto in tangenziale all’ora di punta. A volte riuscivo a rimanere focalizzata, altre volte pensavo quanto stesse bene lo smalto scuro alla mia psico, spesso e volentieri ero distratta dai pazienti dello studio adiacente. E di quello al piano di sopra.
Psicoterapia portami via (dal desiderio di compiacere)
La psico mi diceva che ogni immagine o pensiero si palesasse in quei momenti andava bene, anche se la mente mi rimandava alla lista della spesa. Non ne ero così certa: c’erano sedute in cui davvero avevo il vuoto cosmico, altre in cui il movimento veloce degli occhi si agganciava a ricordi passati dolorosi e la terapia si mostrava in tutta la sua efficacia. In molti casi sparavo a caso, tanta era l’aspettativa che mi sentivo addosso da chi ciondolava indice e medio per un minuto buono tipo benedizione papale: vorrai mica dirle che eri concentrata sugli stimoli sensoriali a cornice, come la sua postura, il ticchettìo dell’orologio o quello spiffero che entra dalla finestra?! Non scherziamo. Mi prenderebbe per pazza, se dovessi dirle davvero cosa mi passa per la testa in quei minuti.
Un pensiero piuttosto infantile, a pensarci col senno di poi. Perché i soldi delle sedute li tiravo fuori io e la psicoterapia si fa allo scopo di stare meglio, non per compiacere chi hai di fronte. Dovrebbe essere uno spazio in cui sentirsi liberə di dire quello che si vuole, senza filtri. Sarebbe persino più salutare esagerare e spingersi oltre i limiti del proprio pudore, per testare l’efficacia della specialista che hai di fronte. Non arrivo a dire che sia necessario provocare il proprio terapeuta, ma sicuramente non dobbiamo considerarlo un amico. Nemmeno una confidente né qualcunə con cui sfogarsi. La psicoterapia serve se fai fatica. Se scavi. Se gli effetti positivi si rispecchiano concretamente nel quotidiano. La specialista che ti dà sempre ragione, non è una buona terapista.
Quindi, psicoterapia o psicoeducazione?
Tutto questo preambolo per ribadire che di psicoeducazione non ne sapevo nulla. All’inizio della mia conoscenza dell’ADHD mi sembrava persino rassicurante: psicoeducazione, un termine che mette insieme due parole a me molto care. Psycho (dal greco “soffio vitale”) ed educazione (dal latino educere, che significa sia “condurre fuori” che “nutrire, far crescere”). Rispetto a “psicoterapia”, il termine psicoeducazione mi sembrava tutto sommato innocuo: sono sempre stata una brava alunna. Se tu mi dici cosa fare, io la faccio. Se mi dai strategie di sopravvivenza per campare con un cervello ADHD, stai pur certa che mi impegnerò per metterle in pratica. Forse può bastare anche la psicoeducazione di gruppo, mi dicevo.
Quello che però non consideravo - perché ancora non lo sapevo - era che il funzionamento ADHD, per definizione, è più esposto a rischio fallimenti e a sviluppare un deficit di autostima. E infatti, i miei tentativi iniziali di gestirla da sola studiando i manuali sono falliti miseramente. Avevo una diagnosi da quasi due mesi e stavo ancora in alto mare senza salvagente e senza saper nuotare. Decido allora di unirmi al gruppo di psicoeducazione, mettendo da parte il mio scetticismo circa l’immagine stereotipata da Alcolisti Anonimi americani che avevo in testa.
Il gruppo era già partito col ciclo di incontri (grazie, procrastinazione!). Alla fine mi sono rassegnata a intraprendere un percorso di psicoeducazione individuale. E meno male, perché solo dopo ho realizzato che non avrei mai potuto tollerare le disfunzionalità altrui. Bastano la mia e quelle di famiglia.
Qual è il ruolo della psicoeducazione e perché se ne parla in relazione all’ADHD?
In Canada e in Europa, la psicoeducazione è considerata l’intervento in prima linea per l’ADHD, a prescindere dall’età del paziente. Quelli bravi - ovvero gli psichiatri - lo descrivono come un intervento caratterizzato da 4 elementi: briefing del paziente riguardo alla propria patologia, training di problem solving, training sulla comunicazione e traning sull’autoassertività (ADHD negli adulti, Erickson). Usato in psichiatria sia sui pazienti che sui familiari dei pazienti, è un approccio la cui efficacia è stata dimostrata sul campo e corroborata da evidenze scientifiche. In pratica, ha lo scopo di farti conoscere il funzionamento del tuo cervello e aiutarti a riconoscere - non risolvere - gli effetti dei sintomi nucleari del’ADHD sulla quotidianità. Il fatto che la psicoeducazione sia estendibile anche a parenti, amici e partner è doppiamente benefico, perché evita lo stress di subire situazioni e comportamenti disfunzionali e ti dà la possibilità di acquisire una sorta di cassetta degli attrezzi neurodivergente.
La psicoeducazione non esclude la psicoterapia. Anzi, spesso sono complementari, perché inevitabilmente durante le sedute di psicoeducazione si vanno a toccare corde che riguardano la sfera emotiva, il senso di autoefficacia, i rapporti familiari e, surprise, i traumi del passato. Nel mio caso, quello che doveva essere un percorso di una decina di sedute di psicoeducazione si è trasformato in un rapporto psicoterapeutico di lunga data. Alcune sedute con la mia psico sono prettamente di psicoeducazione: come gestire le difficoltà quotidiane, aggiustamenti di routine, strategie per arginare periodi stressanti. Altre volte mi fa scavare così a fondo che ne esco con le ossa rotte e il mascara colato.
La psicoeducazione è quella giusta via di mezzo per chi non vuole approfondire, ma nemmeno annaspare nel caos ADHD diagnosticato in età adulta. E, soprattutto, è il primo aiuto per chi non sa da che parte iniziare. Ha un costo, per chi non ha la fortuna di appoggiarsi a un ambulatorio del SSN, che non sempre è accessibile a tuttə. Eppure è necessaria e straordinariamente efficace. Cosa che non sempre si può dire della psicoterapia.
🛠️ Tips wow – Strumenti per assecondare l’ADHD
Ci sono volte in cui l’ADHD si mette di traverso e blocca le funzioni esecutive. Sai di dover fare qualcosa, eppure lasci spazio ai pensieri intrusivi. Le scadenze lavorative incombono, ma tu stai sullo smartphone a cercare voli per l’Estremo Oriente. Non sempre è procrastinazione o cattiva gestione del tempo: potrebbe trattarsi di sopraffazione, eccesso di stimoli sensoriali e stress, oppure un malessere più profondo, tipo “non amo più quello che sto facendo”.
Qualche consiglio non richiesto per evitare il disagio e aiutare le funzioni esecutive:
quando fai fatica, non forzare la mano. Se sei distrattə, fatti un giro e poi ritorna su quello che stavi facendo.
Datti più tempo: allunga la routine mattutina, vai a letto prima la sera, salta la palestra per fermarti a leggere un libro. Esci per un attimo dalla ruota del criceto.
Metti delle sveglie sonore per rimetterti in carreggiata.
Cambia ordine alla routine quotidiana, purché le ore di sonno rimangano sempre le stesse.
Fai ordine: nell’armadio, sulla scrivania, negli spazi comuni. Riordinare i luoghi che abiti aiuta a mettere in fila i pensieri. E a sentirsi meno in colpa quando si procrastina (ho iniziato più tardi un lavoro, ma almeno ho sistemato l’ufficio).
A fine giornata fai un elenco di tutte le cose fatte e datti una pacca sulla spalla (sembrano sempre poche, finché non le metti nero su bianco).
📖 Dizionario divergente
Ogni settimana scegliamo una parola che racconta il mondo Atipiche.
Rumore mentale (mental noise): è quella sensazione di avere la testa sempre piena di pensieri che si accavallano, si interrompono o si sovrappongono. Nelle persone con ADHD, questo “rumore di fondo” può rendere difficile concentrarsi, ascoltare o portare a termine un compito. Non è semplice distrazione, ma un flusso mentale continuo che può risultare faticoso da gestire.
Grazie per la tua attenzione, arrivare fino alla fine non è così scontato :)
A venerdì prossimo!
Un abbraccio
Anna



Grazie, questo post è fondamentale, sia per la psico educazione, che non conoscevo, sia per il Tips wow. Sopraffazione, ecco cos'è
Stamattina non mi trovavo nel giardino del retro di una biblioteca nei pressi del Colosseo, ma sul mio balcone, in compagnia di un paio di fiori, e la tua nl è arrivata come il calabrone tramortito che ho visto assaggiare quel che continua a rifiorire in quei vasi i quali, giorno dopo giorno, diventano un po’ più rinsecchiti. Che beatitudine questo clima subalpino, mi viene da dire, ma poi la vera beatitudine mi sembra più propriamente che sia la tua cassetta degli attrezzi neurodivergente, di cui vorrei assolutamente capirne i rudimenti, per bastarmi quando fuori c’è il deserto e l’esilio.